La Consorteria Petrolifera – Viaggio nel polmone nero del Potere italiano. Capitolo II: la legge

Questo articolo è stato pubblicato su The Blazoned Press il 26 giugno 2014.

[Capitolo I]

domenicheapiedi

La “tangente Sincair” è chiusa da un pezzo quando l’Italia si risveglia con un nuovo scandalo tangenti legato al petrolio.
Dai 30 milioni pagati una tantum nel 1924 si passa, tra il 1968 ed il 1973, ad una vera e propria “tassa del 5%” che le società petrolifere appartenenti all’Unione Petrolifera si auto-impongono per ottenere leggi favorevoli attraverso la corruzione dei principali partiti di governo dell’epoca.

Nascita di una falsa notizia
La chiusura del Canale di Suez (1967-1975), strategico per le rotte petrolifere tra Golfo Persico ed Europa porta il governo italiano a dar vita alle prime “domeniche ecologiche” e a destinare poco più di 93 miliardi e mezzo di lire in aiuti economici alle compagnie petrolifere le quali, costrette a circumnavigare l’Africa, vedono aumentare i costi di produzione.
La legge sui “contributi Suez – n. 1089 del 1 dicembre 1967 – sarà la prima di una serie di leggi e decreti sottoposti a tangente, calcolata sul 5% del vantaggio ottenuto dai petrolieri e necessaria ad estendere il contributo anche a quelle società non direttamente coinvolte nella chiusura del Canale.

Già nel dicembre 1973, però, i titoli dei giornali iniziano a mutare. L’assenza di petrolio, fino a quel momento giustificata dalle congiunture internazionali, diventa una “speculazione”, un vero e proprio “imboscamento di carburante” realizzato distraendo tonnellate di gasolio dal fabbisogno nazionale per destinarle all’estero, come avviene per le 3.000 tonnellate di gasolio della raffineria di San Quirico del gruppo Garrone dirette a Marsiglia.
Non esiste alcun pericolo che l’Italia rimanga “a secco”, dunque. Esiste invece il reato di aggiotaggio scoperto dal pretore Mario Almerighi anche grazie ad una serie di intercettazioni[1] nelle quali un dipendente della Garrone ammetteva di avere i depositi pieni “a tappo”.

La tangente a debito
Se i giornali possono mutare il racconto di quella crisi energetica è anche perché, nel frattempo, la magistratura ha già iniziato a muoversi. Uno dei documenti più importanti dell’intera indagine – il cosiddetto “promemoria Cittadini”, contenente nomi, cifre e provvedimenti sottoposti a tangente – viene ritrovato nel gennaio 1974 durante una perquisizione della sede romana del gruppo Garrone[2].
A redigere il documento Carlo Cittadini, segretario dell’Unione Petrolifera Italiana – gruppo di pressione dei petrolieri o semplice sindacato di categoria a seconda della lettura che se ne vuol dare – guidata da Vincenzo Cazzaniga, presidente della filiale italiana della Esso e braccio destro di Eugenio Cefis in varie operazioni politiche ed economiche.

Il promemoria viene redatto come extrema ratio dopo una serie di lettere di sollecito inviate alle compagnie petrolifere che ancora non avevano coperto la propria quota di tangente. Per permettere che tutte le società dell’Upi fossero destinatarie dei contributi Suez, infatti, Cazzaniga aveva aperto due fidi bancari presso la società finanziaria dell’Eni (la Sofid) che anticipava il denaro per conto dei petrolieri e presso l’Italcasse, che redistribuiva il denaro ai partiti. L’istituto verrà coinvolto nel 1978 in una ulteriore inchiesta giudiziaria sui fondi neri alla politica.

La compravendita
Oltre ai contributi Suez, le indagini portano alla luce altre leggi viziate dal pagamento di tangenti.
Due miliardi vennero pagati per la legge n.393 del 28 marzo 1968, relativa al pagamento differito dell’imposta di fabbricazione e per l’imposta generale sulle entrate (Ige) sui prodotti petroliferi, con altri due miliardi elargiti per l’estensione al 1972. L’autotassazione del 5% viene invece ripresa per la legge n.427 del 4 luglio 1971 – disegni di legge annessi – sulla defiscalizzazione.

Effetto tangente
Il peso della compravendita delle leggi non si esaurisce nei soli vantaggi diretti per i petrolieri. Ad essere colpite dagli effetti della compravendita sono, di riflesso, la politica energetica del governo centrale, le leggi ambientali – nazionali e locali – così come le relazioni internazionali ed il sistema delle missioni militari all’estero. Senza contare che il potere delle compagnie petrolifere – come qualsivoglia sistema di potere – mira ad ottenere il controllo dei mezzi di informazione e ad influenzare l’opinione pubblica.

1972: Tangente quotidiana
Tra il 1968 ed il 1972 le correnti dei tre partiti di governo – Dc, Psi, Psdi – hanno ottenuto in tangenti 8 miliardi di lire. Briciole rispetto alle centinaia di miliardi guadagnati dalle compagnie petrolifere – che l’Unità del 21 febbraio 1974 stimava in circa 400/450 miliardi di lire – ed al denaro sottratto ai contribuenti.

Il 1972 è l’anno delle elezioni anticipate. Il flusso delle tangenti cambia verso: non sono i petrolieri che pagano per avere vantaggi ma sono i politici che chiedono denaro per la campagna elettorale. Non ci sono contributi né sconti da poter offrire come moneta di scambio alle società, perché il governo uscente può muoversi solo nell’ordinaria amministrazione.
Per questo viene organizzata una articolata campagna di collaborazione tra petrolieri e giornali di partito dal valore di un miliardo di lire, quasi interamente destinato alla Democrazia Cristiana che, attraverso l’onorevole Filippo Micheli – referente del gruppo Garrone nel mondo politico – li redistribuisce alle correnti interne e agli altri partiti.
Ascoltato il 9 aprile 1974 dalla Commissione d’inchiesta parlamentare sullo scandalo petroli, il senatore socialista Augusto Talamona sostenne che i contributi “del tutto disinteressati” facevano parte di una più ampia politica di finanziamento degli organi di stampa, realizzata sia con contributi diretti che attraverso la pubblicità.

I giornali non direttamente vincolati ai partiti venivano invece finanziati attraverso la pubblicità, legando la propria indipendenza al denaro delle compagnie petrolifere. Sarà l’Eni – lo dimostrerà in maniera eloquente la vicenda di Sabina Morandi – nei decenni successivi ad esercitare questo potere nella maniera più invasiva. Un sistema, quello dell’”Ufficio Propaganda” che rappresenta a tutt’oggi l’esempio più eloquente della capacità di pressione esercitata – ed esercitabile – dalle compagnie petrolifere sui governi italiani, nazionali e locali.

Genova Roma solo andata…per l’insabbiamento
Nel frattempo, a Genova e a Roma la magistratura metteva in fila i pezzi dello scandalo.
Durante le indagini per lo “scandalo Enel“, nel febbraio 1974 vengono ritrovati alcuni assegni partiti da un conto del Credito Italiano intestato a Cazzaniga, girati all’Italcasse e finiti sui conti della Stanic, società amministrata dallo stesso ex presidente della Esso.

In quei mesi la casa madre della società – Exxon – era stata messa sotto inchiesta negli Stati Uniti per aver creato fondi neri con cui pagare politici nazionali e stranieri. Bob Dorsey, presidente della Gulf Oil Corporation, nell’aprile 1978 dichiarava davanti agli inquirenti che le compagnie avevano stanziato un totale di 10 milioni di dollari per “vari contributi politici” e destinati a paesi come Venezuela, Ecuador, Perù, Bolivia, Corea, Italia[3].

In Italia, intanto, insieme a Cazzaniga vengono incriminati dalla Procura di Roma Gustavo Passanisi e Aldo Sala della Stanic (quest’ultimo sostituirà proprio Cazzaniga alla guida della Esso), Giuseppe Bartolotta dell’Agip e Giuseppe Arcaini, direttore generale Italcasse. Per tutti le accuse saranno di falso in bilancio e appropriazione indebita aggravata.

Non tutti prendono bene l’indagine, non solo tra gli iscritti nel registro degli indagati.
Francesco Coco – procuratore generale ucciso dalle Brigate Rosse nel 1976 – avrebbe voluto incriminare per attività sovversiva ed attentato alla Costituzione[4] i pretori genovesi che si occuparono dell’inchiesta (Almerighi, Adriano Sansa e Carlo Brusco), attaccati anche dalle pagine dell’house organ dell’Eni – Il Giorno – ed accusati da Lucio Grisolia, procuratore della Repubblica di Genova, di vedere “ombre anche dove non esistono[5].

Fu a Roma, però, che si giocò la vera partita politica interna alla magistratura.
Mentre gli atti venivano trasferiti alla Procura della Capitale, in Parlamento veniva formata la Commissione Inquirente guidata da Francesco Cattanei e composta per nove membri su venti da esponenti della Democrazia Cristiana. Il partito maggiormente coinvolto nello scandalo.

Il 6 marzo 1974 la Commissione indicava negli ex ministri Giulio Andreotti, Mario Ferrari Aggradi, Giacinto Bosco, Athos Valsecchi (tutti della Dc), Luigi Preti, Mauro Ferri (Psdi) i “soggetti cui erano riferibili i provvedimenti oggetto d’indagine[6]. Il 19 febbraio, intanto, Almerighi a Genova aveva firmato gli ordini di arresto per l’avvocato Gregorio Arcidiacono – braccio destro dei Garrone a Roma – e per Carlo Cittadini, accusati con Vincenzo Cazzaniga di essere i “promotori e gli organizzatori principali dell’associazione per delinquere loro contestata e avente la corruzione di politici e pubblici amministratori come reato fine[7]. Già l’8 marzo, a 48 ore dalle accuse, la posizione di Andreotti e Ferrari Aggradi (DC) veniva stralciata per prescrizione. Archiviate, inoltre, le posizioni di Bosco (DC) e Preti (Psdi).
Le indagini sui due ministri rimasti – Ferri e Valsecchi – furono chiuse solo nel 1979, assolvendo entrambi.

L’11 gennaio 1979 il Parlamento chiuderà definitivamente l’inchiesta, assolvendo tutti i ministri e prescrivendo tutti i reati nonostante sia la relazione di maggioranza della Commissione che quella di minoranza concordavano sull’esistenza di “un’attività tangentizia dietro l’emanazione delle leggi”.

La relazione di maggioranza Lapenta definì come nessun reato fosse imputabile in quanto i contributi Suez erano stati approvati dal Parlamento e contrastati da alcuni partiti (facendo rientrare il tutto nel normale lavoro parlamentare), i pagamenti differiti non erano altro che esecuzioni di direttive europee e che l’intesa tra petrolieri e politici alla base dello scambio non costituisse, di per se stessa, prova incontrovertibile di corruzione.

Il primo processo per lo scandalo petroli si conclude, dunque, con un sostanziale insabbiamento e l’arresto del latitante Cazzaniga, rientrato in Italia nel maggio 1977. Sarà, tra i principali indagati, l’unico condannato del secondo scandalo petroli.

Ad agosto di quello stesso 1979 il magistrato romano Enrico Di Nicola tentò di riaprire il processo, chiedendo al giudice istruttore di Roma Catenacci di inviare alle camere l’autorizzazione a procedere per i segretari amministrativi dei partiti, accusati tra gli altri di corruzione e falsità materiale in atti pubblici. La richiesta verrà inviata al Parlamento solo a Natale.
La richiesta per l’arresto del deputato Filippo Micheli venne presentata alla Camera in una seduta, quella del 3 febbraio 1982, presieduta dall’onorevole Preti, fino a poco tempo prima indagato proprio per lo scandalo petroli.

Ma tutta questa storia, in realtà, non esiste. È il frutto della “fantasia investigativa” di un gruppo di pretori liguri e romani. Perché la vicenda giudiziaria finì con un nulla di fatto. “Ungere le ruote del potere politico per comprare le leggi” – scrisse su La Stampa del 10 marzo 1985 Roberto Martinelli – “era perfettamente lecito”.

Le tangenti per la compravendita delle leggi però, non furono gli unici scandali petroliferi di quegli anni.

[2 – Continua]

Note
[1] Mario Almerighi, Petrolio e politica – Oro nero, scandali e mazzette. La prima tangentopoli, nuova edizione Editori Riuniti 2006, pag.188;
[2] a guidare la perquisizione il tenente colonnello Vincenzo Bianchi, comandante del nucleo della polizia tributaria della Guardia di Finanza di Genova che, pochi anni dopo, guiderà la perquisizione della Giole, la fabbrica di abbigliamento aretina dove verranno ritrovati gli elenchi parziali degli iscritti alla loggia P2;
[3] Mario Almerighi, op.cit., pag.227-228;
[4] Mario Almerighi, op.cit., pag. 73;
[5] Mario Almerighi, op.cit., pag. 39;
[6] Mario Almerighi, op.cit., p.233;

[7] Mario Almerighi, op.cit., p.218;

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