Armi italiane, cronistoria del potere dei “mercanti di morte”

500.000 euro in armamenti, 2,5 milioni per le forze armate. È il costo, orario, della spesa militare italiana.
Bombe, missili, navi da guerra, cacciabombardieri acquistati non con il budget della Difesa ma con il denaro destinato allo sviluppo economico del Paese. Armi e mezzi spesso inutilizzati per l’assenza dei fondi necessari all’uso e alla manutenzione, come parte dei tremila carri armati abbandonati nel cimitero di Lenta (Vercelli) e letteralmente regalati ai regimi non democratici di Pakistan, Libia e Gibuti.

Guerre, armi, droga e politica estera

Stando ai dati dello Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), l’Italia rappresenta “solo” il 2,9% di un mercato globale che nel solo 2015 ha registrato profitti per 307,7 miliardi di dollari (-0,6% rispetto al 2014), finiti in massima parte (305 miliardi) nelle casse dei produttori di Stati Uniti ed Europa, dove tra 2014 e 2015 si è registrata una crescita del 6,6%.

Da Washington e dalle capitali europee sono partite le armi per i cartelli della droga in Messico, per la guerra a Daesh, per i bombardamenti “made in Italy” sullo Yemen, in un sistema in cui l’industria bellica decide spesso la politica estera e di sicurezza dei governi, in un rapporto sempre più stretto tra affari, guerre e corruzione in cui l’Italia gioca da sempre un ruolo di primo piano.

1946-2016: storia di un business che non conosce crisi

Le armi diventano strategiche nell’economia italiana fin dai primi del Novecento, quando le grandi banche – Banca Commerciale, Credito Italiano, Banca di Roma – finanziano la produzione dei grandi produttori dell’epoca: Fiat, Ilva, Terni, Breda, Ansaldo.
All’epoca gli istituti bancari sono semplici «succursali dei maggiori trust industriali» e agiscono in un’«architettura finanziaria complessa, tale da ingessare il mercato o favorire monopoli ingombranti», ma il rapporto banche-armi è già molto forte[1].

L’industria bellica italiana diventa affare di Stato alla fine degli anni Venti, con la crisi di industrie come Ansaldo e Ilva e il diretto intervento del regime fascista, che nel 1933 affida all’Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI) il compito di coprire le perdite delle prime “banche armate” e di acquisire partecipazioni nelle aziende in crisi. La produzione nazionale rallenta anche durante la Seconda Guerra Mondiale, dopo la quale l’Italia dovrà fare i conti con la riduzione delle forze armate, della produzione e commercializzazione degli armamenti imposta dal Trattato di Pace del 1947 (artt. 60, 61, 65).

Con il contestato ingresso dell’Italia nel Patto Atlantico e l’arrivo dei fondi del Piano Marshall (1.470 milioni di dollari) l’industria bellica nazionale entra nell’orbita degli interessi statunitensi, mentre i primi governi post-fascisti creano il Fondo per il Finanziamento dell’Industria Bellica (FIM) e quella Finmeccanica che, insieme a Beretta Holding Spa, nei decenni successivi diventerà la società più importante nella geopolitica delle armi italiane, tanto dal lato economico quanto su quello politico.
Nel decennio 1950-1960 gli Stati Uniti concedono altri 2.210 miliardi in aiuti militari, a condizione che l’Italia sviluppi un programma straordinario di riarmo di oltre 500 miliardi di lire[2].

Gli anni Cinquanta vedono rafforzarsi il legame con Washington e l’apertura ai mercati internazionali, soprattutto verso il Terzo Mondo. La spesa militare italiana assorbe un quinto della spesa pubblica finale e quasi il 5% del PIL, con un tasso di crescita di circa l’1% annuo. Sono gli anni in cui lo Stato – guidato dalla Democrazia Cristiana – diventa allo stesso tempo acquirente e proprietario dell’industria bellica nazionale, mentre in Parlamento si discutono le prime leggi per la promozione del settore e, soprattutto nel Nord Italia, nascono i primi distretti produttivi. È una fase di forte sviluppo per le armi italiane, le cui transazioni commerciali passano dal milione di dollari del 1966 ai 423 del 1979[3].

5.540 miliardi di lire è il profitto dell’industria bellica italiana nel 1985, guidata da Fiat, gruppo Iri (Finmeccanica, Stet, Fincantieri) ed Efim (finanziaria Breda e Aviofer Breda). Il mercato è ormai al 60% composto da esportazioni di competenza del ministero per il Commercio Estero e non, come logica vorrebbe, della Difesa. Le armi italiane entrano così nella guerra del Golfo e nella guerra civile somala, mentre tra i clienti internazionali entrano il Portogallo coloniale, l’Arabia Saudita – ancora oggi tra i principali acquirenti di armi italiane – e il Sudafrica dell’apartheid. Il 3% dell’intero mercato delle armi è, in quegli anni, made in Italy.

Contro i “mercanti della morte”

Gli anni Ottanta mostrano però anche i primi segni di opposizione allo strapotere dell’industria bellica. Mentre in Sicilia la società civile si schiera contro i missili di Comiso, la stampa nazionale scopre che dal porto di Talamone (Grosseto) sono state inviate 5.000 tonnellate di armi all’Iran di Khomeini transitate, per aggirare l’embargo, da Israele. È un vero e proprio riscatto che l’Italia paga, per conto degli Stati Uniti, per la liberazione di alcuni ostaggi statunitensi detenuti in Libano.

Nella VII Legislatura (5 luglio 1976 – 19 giugno 1979) arrivano le prime proposte di regolamento del commercio delle armi italiane. Sono gli anni delle prime esperienze di pressione civica antimilitarista, come la campagna “Contro i mercanti della morte promossa da Acli, Mani Tese, Pax Christi e Missione Oggi. Per la prima volta viene posto il problema della responsabilità etica dell’industria bellica.
Dopo il decreto sulla “Disciplina relativa al rilascio delle autorizzazioni all’esportazione e al transito di materiale di armamento” (4 dicembre 1986) la vera svolta arriva con quella legge n.185/90 (pdf) che, pur riformata nel 2003, ancora oggi definisce il quadro normativo nazionale dell’intera materia. Questa legge, che lega fortemente la produzione bellica «alla politica estera e di difesa dell’Italia» vieta l’esportazione e il transito di armamenti e delle relative licenze di produzione quando tale attività sia

in contrasto con la Costituzione, con gli impegni internazionali dell’Italia e con i fondamentali interessi della sicurezza dello Stato, della lotta contro il terrorismo e del mantenimento di buone relazioni con altri Paesi, nonché quando manchino adeguate garanzie sulla definitiva destinazione dei materiali

Un divieto che la forza politica delle industrie belliche porterà ad essere più formale che sostanziale.

Rivoluzione 185

Sono due gli aspetti più importanti che la l.185/1990 introduce nella regolamentazione dell’«esportazione, importazione e transito» delle armi prodotte dall’Italia:

  • l’obbligo da parte dei ministeri competenti di redigere, entro la fine di marzo, una Relazione annuale sui movimenti delle armi in entrata e in uscita dal nostro Paese, che negli anni verrà fortemente aggirato;
  • la possibilità di mappare le “Banche Armate, quegli istituti bancari che traggono profitto dal commercio delle armi, un’altra fondamentale battaglia vinta grazie ad una forte azione di pressione civica

Esempio di best practice sul piano internazionale, dalla legge 185/90 sono escluse le armi sportive e da caccia, le non automatiche e le riproduzioni di armi antiche. Alcuni commerci al limite del lecito sfruttano proprio il confine tra uso civile e militare (tecnologia dual use), sulla vendita di pezzi da assemblare o sulle triangolazioni con Paesi terzi.

La nuova legge riforma anche il sistema delle responsabilità ministeriali: le armi non sono più equiparate agli altri beni da esportazione – e dunque sottoposti alla responsabilità del ministero del Commercio Estero – ma trasformate in strumento di politica estera.
La responsabilità sulle esportazioni viene così redistribuita tra i ministeri della Difesa, dello Sviluppo Economico, dell’Economia e delle Finanze, degli Affari Esteri e, attraverso un accordo quadro del 2014, al Miur. Difesa e ministeri economici hanno il compito di redigere i bilanci, mentre alla Farnesina è affidato il “Fondo per le missioni internazionali”.
Presso la Difesa è inoltre tenuto il registro nazionale delle imprese autorizzate «ad iniziare trattative contrattuali e ad effettuare operazioni di esportazione, importazione, transito di materiale di armamento», a fronte di un “Certificato di uso finale” rilasciato dalle autorità del Paese di destinazione degli armamenti e autenticato dalle autorità diplomatiche o consolari italiane. È questo documento che certifica l’effettiva consegna delle armi al Paese acquirente.

Il divieto di esportazione verso Paesi fortemente indebitati, sotto embargo o governi non democratici (art.1 l.185/90) viene ovviamente tacciato dall’industria bellica di rendere poco competitiva l’offerta italiana, che perde occasione di fare affari ogni volta che i diritti umani o altre questioni di natura etica bloccano la vendita delle armi italiane. Per questo – e per far fronte alle richieste europee – nel nuovo millennio l’applicazione della legge sarà sempre più lasca, portando la Relazione annuale a diventare sempre più opaca e meno dettagliata.

Tra il 2010 e il 2015 il potere di pressione dell’industria porterà un profitto bellico di 5 miliardi di euro e un costante flusso migratorio dai Paesi in guerra.

Dalla 185/90 alla “legge Farnborough”

La pressione dell’industria bellica – e dunque l’attacco diretto alla l.185/90 – arriva anche dal versante politico: il 27 luglio 2000, durante la Fiera biennale del settore aeronautico e spaziale di Farnborough (Gran Bretagna) i ministri della Difesa di Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Spagna e Svezia – i principali produttori europei – firmano l’”Accordo quadro per facilitare la ristrutturazione e le attività dell’industria europea della difesa”, di due anni successivo alla creazione dell’Organizzazione Congiunta per la Cooperazione in materia di Armamenti (Occar) nata allo scopo di ridurre i costi di ricerca e approvvigionamento e – soprattutto – migliorare la competitività dell’industria bellica europea nei confronti dell’offerta statunitense.

Con l’Accordo di Farnborough, che «non prevede alcun criterio etico nella scelta dei clienti» e cede ad un organismo sovranazionale il controllo dello scambio di armamenti[4] nascono i primi programmi di cooperazione tra Francia, Germania, Gran Bretagna e Italia, che ratifica il trattato sull’Occar nella legge n.348 del 15 novembre 2000. La circolazione di pezzi e materiali all’interno dei sei paesi viene così liberalizzata attraverso la “Licenza globale di progetto” e la creazione di una “whitelist” in cui inserire i potenziali acquirenti esterni.

Cavilli, business e diritti umani

Sul fronte interno, il governo Berlusconi dà vita alla politica (bipartisan) del «commesso viaggiatore», seguita ancora oggi con i “tour” promozionali della portaerei Cavour e del ministro della Difesa Roberta Pinotti. In tale ottica, la Licenza globale viene liberalizzata a tutti i Paesi Nato, indipendentemente dalla loro localizzazione geografica e, ovviamente, senza che questi siano tenuti a rispettare le regole dell’Accordo di Farnborough. La necessità del governo è quella di tutelare l’interesse «non secondario» dell’industria bellica nazionale, come evidenzia la Relazione introduttiva del progetto di legge n.1927 presentato alla Camera dei Deputato il 9 novembre 2001.

Il riposizionamento dell’Italia lungo la frattura tra business e diritti umani inizia già nell’agosto 1990, quando si decide di applicare il blocco delle forniture solo verso i Paesi di cui le Nazioni Unite o l’Unione Europea abbiano accertato gravi violazioni dei diritti umani, a patto che l’Italia abbia accettato tale decisione. Il cavillo del voto favorevole serve ad esempio nel 1992 quando, nonostante la condanna della Commissione Onu sui diritti umani, l’Italia invia armi ad Israele nonostante la deportazione dei palestinesi.

Per bloccare l’Accordo di Farnborough, la società civile torna a manifestare raccogliendosi intorno alla campagna “In difesa della 185. Contro i mercanti di armi lanciata dal settimanale non profit “Vita”. Questa volta, però, il potere di pressione bellico sarà più forte della mobilitazione civica, portando ad un peggioramento della legge soprattutto in termini di trasparenza.
Passerà poi un decennio prima che il legislatore italiano torni ad interessarsi alla materia, attraverso il decreto legislativo n.105 del 22 giugno 2012 con il quale viene rivisto il sistema delle autorizzazioni, suddiviso in tre tipologie:

  • generale: gli armamenti oggetto di trasferimento devono essere specificati nell’autorizzazione stessa;
  • globale: viene rilasciata un’autorizzazione di tre anni, rinnovabili, senza limitazioni di quantità e valore delle forniture;
  • individuale: impone il trasferimento ad uno specifico destinatario e solo di quantità e valori di armamenti specificati

La legge del 2012 rivede i controlli sull’intermediazione e definisce il potere di veto sulle autorizzazioni, utilizzabile dal Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza (DIS) in caso di presenza di informazioni classificate.
In uno studio dal titolo “Le modifiche del 2012 alla disciplina sui controlli delle esportazioni di armi della legge 185 del 1990” (pdf) però, Emilio Emmolo dell’Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo evidenzia che

ad un esame letterale delle nuove previsioni, i controlli non sono estesi alle attività di intermediazione svolte al di fuori del territorio nazionale da cittadini residenti o stabiliti in Italia come richiesto dall’art.2 della posizione comune. Non sembra colmata la lacuna presente della legislazione italiana che porta ad una carenza di giurisdizione, nel caso in cui le attività avvengano «estero su estero», ovvero ad esempio nel caso in cui un cittadino straniero sia imputato dalla magistratura italiana per un’intermediazione illegale di armi (ad esempio, in violazione di un embargo) se le armi non hanno attraversato il territorio italiano. Sono molti, infatti, i casi di questo tipo documentati e confermati da una serie di sentenze: trafficanti di armi operano in Italia “estero su estero”[…]per trasferire armi in Stati sotto embargo (Ruanda, ex Jugoslavia, Liberia e Sierra Leone). Tutti assolti per difetto di giurisdizione

Note:

  1. Riccardo Bagnato, Benedetta Verrini, Armi d’Italia. Protagonisti e ombre di un made in italy* di successo, Fazi editore, 2005, p.43, (*minuscolo nel titolo originale, ndr);
  2. Leopoldo Nascia, Mario Pianta, Economia a mano armata. Libro bianco sulle spese militari 2012, p.20, sbilanciamoci.org (pdf);
  3. Sipri Yearbook 1986;
  4. Bagnato, Verrini, op.cit., p.69;

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